sabato 19 luglio 2014

Ipercubo critica: walltext sociologici 1.0

Ciao, come va?

Da molto non mi facevo vivo, e cominciare così può sembrare il modo migliore. E forse lo è.
Ma di certo non è il modo più genuino, e non sto parlando di questo blog.

No, parlo di queste tre, all'occorrenza più, magiche paroline applicate al contesto quotidiano, la famosa "real life" che tutti, volenti o nolenti, siamo chiamati a condurre.
Quante volte abbiamo rotto il ghiaccio in questo modo! Un approccio standardizzato nei secoli per cui ci mostriamo interessati al prossimo e alle sue più o meno appassionanti vicissitudini, cercando un appiglio per tutt'altro.

Che si tratti di gentilezza, o meglio cortesia, di tentativo di annegare un imbarazzato silenzio o come saluto dopo lunghi periodi di separazione, certo è che difficilmente l'umanità poteva trovare un modo più ipocrita (e in questo senso coerente con essa, ma non stiamo a fare i misantropi più di quanto serva) per ingaggiare una discussione.

Ma andiamo un passo per volta.
Perché parto in quarta a fare le pulci a qualcosa di apparentemente insignificante? Perché non ho altro da fare evidentemente (o perché 8 ore di studio al PC non sono abbastanza e devo ammazzarmi le cornee).
Ma anche perché credo che sia il perfetto esempio di qualcosa di più grande e falso che ci caratterizza tutti, nessuno escluso, quando comunichiamo. E che sarebbe importante perlomeno accorgersene, essendo graziati dell'intelletto e dell'empatia.

Perché, e ripeto, perché chiediamo agli altri come stanno (o cosa hanno fatto o simili) quando non siamo disposti ad esserne ascoltatori? E non lo siamo, perché è palese che se a quel punto il nostro interlocutore fosse onesto e ingaggiasse un appassionato monologo su sé stesso saremmo i primi stizziti. "Ma che vuole questo?" "Pensi solo a te, come al solito" "Dai che non ho tutto il giorno da perdere" "Bla bla cazzi miei bla bla". Dicevi? Perché probabilmente, e notare l'associazione dell'evento a uno spazio di probabilità, neanche quelle due frasette di cortesiahhh in risposta a una domanda di cortesiahhh ci rimarranno in testa più del tempo necessario al nostro cervello a generare un nuovo pensiero.

Non ce ne frega di quello che ha da dirci. Certo, MOLTO limitatamente potremmo decidere di starlo a sentire, e potremmo ribattere con qualche semplice domanda o risposta ad effetto. Ma di fatto la pagina è stata voltata appena abbiamo chiuso la bocca.

Aggiungiamo una caratteristica alla risposta allora: essa è triste, negativa, irrimediabilmente contraria alle aspettative. Spiazzati.
A seconda del carisma e della prontezza di spirito, balbettiamo qualche parola di conforto, una pacca sulla spalla, un generoso "quando ti serve sono qui". Ma siamo pronti a interessarci alla situazione e al contesto presentati? Anche no, fa ancora parte del teatrino imbastito con quelle tre candida parole, di cui ora ci pentiamo, e che cerchiamo di cancellare alla meglio. Non siamo interessati a sapere come va; se lo fossimo ad una risposta sincera e, diciamocelo, che dimostra fiducia in noi e desiderio di sostegno, risponderemmo prontamente. Siamo interessati a mandare il discorso laddove vogliamo noi, oltre, che si tratti di cose concrete o di un tergiversare come due vecchiette al supermercato.

Ora, non voglio fare il moralista [più di quanto non lo sia], anche perché siamo umani e non sempre abbiamo la forza di prestarci agli altri, men che meno se deve essere una cosa unilaterale.
Però questa "comevaite" è una piaga da cui si salva una percentuale infinitesimale della popolazione, ovviamente le nuove generazioni si fanno portabandiera di questo girando ancor più il coltello nella piaga: mi fosse capitato una volta di osservare una domanda del genere esclamata con sincero interesse.

Pensaci: proprio perché TUTTI siamo consapevoli di questa verità, quando siamo noi gli "altri", non ce la sentiamo di rispondere con sincerità, rispondendo in modo ancora più generico o deviando in prima persona il discorso su altro. Aprirci è fastidioso, imbarazzante, sconveniente? Anche, ma questo riguarda solo le cose più intime e difficili da dire, mentre tendenzialmente dribbliamo anche le più semplici rivelazioni riguardo noi stessi e il nostro piccolo grande mondo.

Ahh, forse sono tutte masturbazioni mentali, hai ragione.
O anche no. Ma soprattutto non sono meccanismi fini a sé stessi, non possiamo leggerci nella mente ma c'è tutto un mondo di comunicazione che è lì, davanti a noi tutto il tempo, DENTRO di noi tutto il tempo, e che forse una certa influenza nel prossimo la esercita. Magari farà spallucce, ma può darsi che invece, quando è lui quello che si vede preso a schiaffi dal finto interesse, da qualche parte ne rimanga un segno.

C'è un'abitudine che ho assunto da un po' di tempo a riguardo: quella di rispondere facendo notare (o almeno è quella l'idea) fra le righe la spocchiosità della domanda.

"Ciao come va?"
"Come sempre"

oppure

"Ciao, come stai?"
"Sto"

O rispondere "sopravvivo", che aggiunge però un tocco di drammaticità non sempre gradito.
Ho notato perlomeno imbarazzo in chi si sente rispondere così, e ci mancherebbe altro.

La successiva cosa che ho notato è che come meccanismo difensivo la risposta viene associata al classico "tutto bene, tu?" in una percentuale autorevole di casi.
Se non è questo dimostrazione di come la risposta, ad una domanda così densa, sia per noi inutile, beh, allora lasciamo che "vada come va", tanto non sarà il post di un blog a caso a cambiare il verso del mondo, non nel mondo a tre dimensioni.