lunedì 23 dicembre 2019

Ciò che importa


Tre. Tre? Già, tre.
Sorpreso ma non troppo Leo rimase a contemplare le tre figure che ballavano dinnanzi a lui, così brillanti e rapide da fargli venire il voltastomaco. Non era certo se ballassero per lui, anzi nemmeno era certo che fossero coscienti della sua presenza, non che fosse importante. Niente era importante.

“Dai amico, non vorrai mollare proprio ora, sul pi-”. La frase si perse nel frastuono ma all’uomo sembrava fosse rivolta a lui pertanto si voltò quasi di scatto, trovando davanti a sé altre figure indistinte, più vicine e forse pure più rapide. A terra qualcosa si muoveva mentre il soffitto sembrava in preda ad una tremenda tempesta. Cercando rifugio tra le braccia di un divanetto Leo si resse in piedi, risoluto come mai lo era stato negli ultimi 25 minuti.

Un passo, due passi, qualcosa di inaspettato fra i piedi ed un ravvicinato incontro con un morbido pavimento.
“Mmh mmh... buonasera hic...sera sera mmh”.
Dannazione. Sprofondando nel torpore del parquet irrigato dal proprio sangue si rendeva conto della situazione. Di nuovo, di nuovo. Di nuovo stava risolvendo tutto nell’unico modo che la vita gli aveva insegnato: relegando al Leo della mattina successiva le conseguenze e dimenticando tutto.
Qualcosa gli calpestò il polpaccio rovinandogli addosso, non che fosse importante.

Alzando lo sguardo invece l’uomo realizzò di aver mancato il proprio obiettivo di pochi spazi e che strisciando pian piano, senza fretta, avrebbe potuto finalmente stendersi su una superficie meno umida e maleodorante. Piano piano, segui quelle luci danzanti e ci siamo. L’odore nei pressi del pavimento cominciava a dargli la nausea come se non bastassero i superalcolici che gli amici del bar avevano continuano a buttargli giù per la gola. Una scena già vista, già conosciuta, già salutata. Sicuramente da rivedere, riconoscere, risalutare, non che importasse.

Arrancando ad ogni centimetro, facendosi strada tra vetri e cadaveri ambulanti ma deciso a trovare rifugio Leo arrivò ai piedi del tavolino posto a fianco di una delle poltroncine. L’odore del legno fresco... forse il primo amico che i propri sensi avessero potuto assaporare nelle ultime ore. Così vivo, naturale, puro e semplice. Rimase un po’ di tempo a contemplare con beatitudine la piccola, insignificante e straordinaria sensazione di verità in quel girone infernale, un rifugio dimenticato dal peccato umano. Vi rimase talmente tanto e con tale intensità da quasi perdersi in esso, tutt’uno con tale fragranza, sentendosi fuscello esposto al gelo invernale in attesa di tempi migliori. E sentendosi parte di un universo che andava oltre sé, oltre quella stanza, oltre quel paese, quel mondo. La vita, Leo percepì la vita e sentì di aver capito più di quanto l’ultimo decennio di fatiche fosse mai stato in grado di insegnargli.

Forte di tale contemplazione trovò la forza di mettersi in ginocchio, perlomeno per qualche istante. Spossato e colpito da altre rivelazioni, si accasciò nuovamente a terra, sbattendo la faccia sulla fonte della propria meraviglia e ricoprendola di una buona mezzora di felicità liquida. “Ammazzati universo!” biascicò accartocciandosi su se stesso e trovando nuovamente conforto tra le assi del pavimento. Non era poi così straordinario, una merda come se stesso e tutti gli altri, come suo padre, sua madre, sua sorella. Come Dio. Avevano un bel credere le persone religiose, se davvero qualcuno li avesse voluti ad un mondo così come si poteva lodarlo e non, piuttsto, ricoprirlo di ingiurie? La constatazione gli portò alla mente il ricordo di Pascal e la sua scommessa, lontani ricordi delle lezioni di filosofia e di come, tanto tanto tempo fa in una galassia lontana lontana aveva cercato di ergersi a essere razionale e direzionato. Cazzate. Sorrise amaramente. Non che importasse.

Mento a terra e occhi chiusi Leo si concesse il lusso di attivare un altro senso, uno dei tanti disattivati in assenza di stamina. Chiasso, veramente tanto chiasso alla propria sinistra. Qualcuno litigava, sembrava c’entrare qualche ultima dose di qualcosa che Leo non riuscì a comprendere. Le voci erano concitate al punto da renderlo leggermente preoccupato nonostante tutto. Da cosa? In effetti, non v’era ragione per preoccuparsi di granché, non lo riguardava. E pure se lo avesse, non che importasse. 

La mente dell’uomo viaggiava rapidamente da un pensiero all’altro. D’altronde pure nello stato di massima incoscienza, ci dice la Scienza, non passano più di sei secondi fra di essi. Rendendosi conto di ciò Leo si perse in una sorta di ricorsione infinita che lo portò a leggere i discorsi che si riproducevano nella propria mente a velocità esponenziale come neanche il miglior Joyce e tutti quelli lì di cui non gli era mai fregato granché eppure ai tempi della scuola sembrava così importante per essere qualcuno. Lui era qualcuno? Sicuramente se rapportato all’uomo medio e ad i medi valori dell’uomo medio. Sì? Così dicevano. Per sé stesso? Aprì gli occhi, cercò di mettere a fuoco il tavolino, fallendo. Osservò allora immobile il panorama sottostante. Nulla di concreto o importante. No. Non che importasse.

Passò un po’ di tempo prima che abbastanza mana gli scorresse nelle arterie da permettersi un secondo sforzo per guadagnare la posizione eretta. Chi l’ha dura la vince dicono, e quando mai la saggezza popolare fallisce. Per la seconda volta il novello Cristo cadde sotto la propria croce fatta di rimpianti ed Americani. Per la seconda volta fu sul punto di perdersi nel proprio flusso di pensieri. Giammai. I suoi occhi di elfo avevano avvistato una sparuta birra ancora piena a metà sulla sommità del proprio legnoso vicino. Raccolse tutte le proprie forze mentali e fisiche ed infine la raggiunse. Soddisfatto la trangugiò quasi d’un fiato. Finalmente qualcosa di buono e che gli importasse.

Disteso sulla schiena ed in preda a capogiri da record Leo visualizzò nella propria mente una figura nuovamente sfocata. Qualcosa di colorato ma sfocato, qualcosa visto di recente...nonostante il proprio stato e le urla che giravano nell’aria il focus dell’uomo sembrava esserci completamente avvolto intorno a tale immagine. Incurante dei conati che lo stomaco suggeriva, il cervello lavorava parallelamente alla ricerca di una traccia per ricostruire il ricordo, ma niente. E questo sì, sì, questo sì sembrava importante. La sommità del tavolino sembrava conservare la chiave per soddisfare il desiderio di Leo. Ancora una volta quella erculea scalata si poneva come ostacolo ai propri desideri. Dopo qualche minuto di meditazione si sentì pronto ad affrontarla: munito di unghie e olio di gomito si issò, convinto dei propri mezzi e ansioso di scoprire cosa l’avesse colpito così in profondità come non accadeva dai tempi del legno d’abete del tavolino. Con uno scivolone spettacolare Leo si trovò denti a terra, altri per aria. Non che importasse.

Al di sopra di quel muro ligneo aveva scorto abbastanza da potersi accontentare del duro pavimento come giaciglio. La stella, le lucine, i nastri e le pigne, le stelline e le renne, le scritte e le birre sotto la chioma. Nessun regalo e nessuna promessa, nessun futuro e nemmeno una vera festa a dirla tutta. Non che importasse. Leo augurò buon Natale al tavolino, in fondo suo unico amico, perdonò i vicini schiamazzanti e finalmente mise il cuore in pace, scusandosi in anticipo con il Leo del futuro come quelli del passato erano stati cortesi a fare. Non che importasse.