Tre. Tre? Già, tre.
Sorpreso ma non
troppo Leo rimase a contemplare le tre figure che ballavano dinnanzi
a lui, così brillanti e rapide da fargli venire il voltastomaco. Non
era certo se ballassero per lui, anzi nemmeno era certo che fossero
coscienti della sua presenza, non che fosse importante. Niente era
importante.
“Dai amico, non
vorrai mollare proprio ora, sul pi-”. La frase si perse nel
frastuono ma all’uomo sembrava fosse rivolta a lui pertanto si
voltò quasi di scatto, trovando davanti a sé altre figure
indistinte, più vicine e forse pure più rapide. A terra qualcosa si
muoveva mentre il soffitto sembrava in preda ad una tremenda
tempesta. Cercando rifugio tra le braccia di un divanetto Leo si
resse in piedi, risoluto come mai lo era stato negli ultimi 25
minuti.
Un passo, due passi,
qualcosa di inaspettato fra i piedi ed un ravvicinato incontro con un
morbido pavimento.
“Mmh mmh...
buonasera hic...sera
sera mmh”.
Dannazione.
Sprofondando nel torpore del parquet irrigato dal proprio sangue si
rendeva conto della situazione. Di nuovo, di nuovo. Di nuovo stava
risolvendo tutto nell’unico modo che la vita gli aveva insegnato:
relegando al Leo della mattina successiva le conseguenze e
dimenticando tutto.
Qualcosa
gli calpestò il polpaccio rovinandogli addosso, non che fosse
importante.
Alzando
lo sguardo invece l’uomo realizzò
di aver mancato il proprio obiettivo di pochi spazi e che strisciando
pian piano, senza fretta, avrebbe potuto finalmente stendersi
su una superficie meno umida e maleodorante. Piano piano, segui
quelle luci danzanti e ci siamo. L’odore nei pressi del pavimento
cominciava a dargli la nausea come se non bastassero i superalcolici
che gli amici del bar avevano continuano a buttargli giù per la
gola. Una scena già vista, già conosciuta, già salutata.
Sicuramente da rivedere, riconoscere, risalutare, non che importasse.
Arrancando
ad ogni centimetro, facendosi strada tra vetri e cadaveri ambulanti
ma deciso a trovare rifugio Leo arrivò ai piedi del tavolino posto a
fianco di una delle poltroncine. L’odore del legno fresco... forse
il primo amico che i propri sensi avessero potuto assaporare nelle
ultime ore. Così vivo, naturale, puro e semplice. Rimase un po’ di
tempo a contemplare con beatitudine la piccola, insignificante e
straordinaria sensazione di verità in quel girone infernale, un
rifugio dimenticato dal peccato umano. Vi rimase talmente tanto e con
tale intensità da quasi perdersi in esso, tutt’uno con tale
fragranza, sentendosi fuscello esposto al gelo invernale in
attesa di tempi migliori. E sentendosi parte di un universo che
andava oltre sé, oltre quella stanza, oltre quel paese, quel mondo.
La vita, Leo percepì la vita e sentì di aver capito più di quanto
l’ultimo decennio di fatiche fosse mai stato in grado di
insegnargli.
Forte di tale contemplazione trovò la forza di mettersi in ginocchio, perlomeno per qualche istante. Spossato e colpito da altre rivelazioni, si accasciò nuovamente a terra, sbattendo la faccia sulla fonte della propria meraviglia e ricoprendola di una buona mezzora di felicità liquida. “Ammazzati universo!” biascicò accartocciandosi su se stesso e trovando nuovamente conforto tra le assi del pavimento. Non era poi così straordinario, una merda come se stesso e tutti gli altri, come suo padre, sua madre, sua sorella. Come Dio. Avevano un bel credere le persone religiose, se davvero qualcuno li avesse voluti ad un mondo così come si poteva lodarlo e non, piuttsto, ricoprirlo di ingiurie? La constatazione gli portò alla mente il ricordo di Pascal e la sua scommessa, lontani ricordi delle lezioni di filosofia e di come, tanto tanto tempo fa in una galassia lontana lontana aveva cercato di ergersi a essere razionale e direzionato. Cazzate. Sorrise amaramente. Non che importasse.
Forte di tale contemplazione trovò la forza di mettersi in ginocchio, perlomeno per qualche istante. Spossato e colpito da altre rivelazioni, si accasciò nuovamente a terra, sbattendo la faccia sulla fonte della propria meraviglia e ricoprendola di una buona mezzora di felicità liquida. “Ammazzati universo!” biascicò accartocciandosi su se stesso e trovando nuovamente conforto tra le assi del pavimento. Non era poi così straordinario, una merda come se stesso e tutti gli altri, come suo padre, sua madre, sua sorella. Come Dio. Avevano un bel credere le persone religiose, se davvero qualcuno li avesse voluti ad un mondo così come si poteva lodarlo e non, piuttsto, ricoprirlo di ingiurie? La constatazione gli portò alla mente il ricordo di Pascal e la sua scommessa, lontani ricordi delle lezioni di filosofia e di come, tanto tanto tempo fa in una galassia lontana lontana aveva cercato di ergersi a essere razionale e direzionato. Cazzate. Sorrise amaramente. Non che importasse.
Mento
a terra e occhi chiusi Leo si concesse il lusso di attivare un altro
senso, uno dei tanti disattivati in assenza di stamina. Chiasso,
veramente tanto chiasso alla propria sinistra. Qualcuno litigava,
sembrava c’entrare qualche ultima dose di qualcosa che Leo non
riuscì a comprendere. Le voci erano concitate al punto da renderlo
leggermente preoccupato nonostante tutto. Da cosa? In effetti, non
v’era ragione per preoccuparsi di granché, non lo riguardava. E
pure se lo avesse, non che importasse.
La mente dell’uomo viaggiava rapidamente da un pensiero all’altro. D’altronde pure nello stato di massima incoscienza, ci dice la Scienza, non passano più di sei secondi fra di essi. Rendendosi conto di ciò Leo si perse in una sorta di ricorsione infinita che lo portò a leggere i discorsi che si riproducevano nella propria mente a velocità esponenziale come neanche il miglior Joyce e tutti quelli lì di cui non gli era mai fregato granché eppure ai tempi della scuola sembrava così importante per essere qualcuno. Lui era qualcuno? Sicuramente se rapportato all’uomo medio e ad i medi valori dell’uomo medio. Sì? Così dicevano. Per sé stesso? Aprì gli occhi, cercò di mettere a fuoco il tavolino, fallendo. Osservò allora immobile il panorama sottostante. Nulla di concreto o importante. No. Non che importasse.
La mente dell’uomo viaggiava rapidamente da un pensiero all’altro. D’altronde pure nello stato di massima incoscienza, ci dice la Scienza, non passano più di sei secondi fra di essi. Rendendosi conto di ciò Leo si perse in una sorta di ricorsione infinita che lo portò a leggere i discorsi che si riproducevano nella propria mente a velocità esponenziale come neanche il miglior Joyce e tutti quelli lì di cui non gli era mai fregato granché eppure ai tempi della scuola sembrava così importante per essere qualcuno. Lui era qualcuno? Sicuramente se rapportato all’uomo medio e ad i medi valori dell’uomo medio. Sì? Così dicevano. Per sé stesso? Aprì gli occhi, cercò di mettere a fuoco il tavolino, fallendo. Osservò allora immobile il panorama sottostante. Nulla di concreto o importante. No. Non che importasse.
Passò
un po’ di tempo prima che abbastanza mana gli scorresse nelle
arterie
da permettersi un secondo sforzo per guadagnare la
posizione eretta. Chi l’ha dura la vince dicono, e quando mai la
saggezza popolare fallisce. Per la seconda volta il novello Cristo
cadde sotto la propria croce fatta di rimpianti ed Americani. Per la
seconda volta fu sul punto di perdersi nel proprio flusso di
pensieri. Giammai. I suoi occhi di elfo avevano avvistato una sparuta
birra ancora piena a metà sulla sommità del proprio legnoso vicino.
Raccolse tutte le proprie forze mentali e fisiche ed infine la
raggiunse. Soddisfatto la trangugiò quasi d’un fiato. Finalmente
qualcosa di buono e che gli importasse.
Disteso
sulla schiena ed in preda a capogiri da record Leo visualizzò nella
propria mente una figura nuovamente sfocata. Qualcosa di colorato ma
sfocato, qualcosa visto di recente...nonostante il proprio stato e le
urla che giravano nell’aria il focus dell’uomo sembrava esserci
completamente avvolto intorno a tale immagine. Incurante dei conati
che lo stomaco suggeriva, il cervello lavorava parallelamente alla
ricerca di una traccia per ricostruire il ricordo, ma niente. E
questo sì, sì, questo sì sembrava importante. La
sommità del tavolino sembrava conservare la
chiave per soddisfare il
desiderio di Leo. Ancora una volta quella erculea scalata si poneva
come ostacolo ai propri desideri. Dopo qualche minuto di meditazione
si sentì pronto ad affrontarla: munito di unghie e olio di gomito si
issò, convinto dei propri mezzi e ansioso di scoprire cosa l’avesse
colpito così in profondità come non accadeva dai tempi del legno
d’abete del tavolino. Con uno scivolone spettacolare Leo si trovò
denti a terra, altri per aria. Non che importasse.
Al di sopra di quel muro ligneo aveva scorto abbastanza da potersi accontentare del duro pavimento come giaciglio. La stella, le lucine, i nastri e le pigne, le stelline e le renne, le scritte e le birre sotto la chioma. Nessun regalo e nessuna promessa, nessun futuro e nemmeno una vera festa a dirla tutta. Non che importasse. Leo augurò buon Natale al tavolino, in fondo suo unico amico, perdonò i vicini schiamazzanti e finalmente mise il cuore in pace, scusandosi in anticipo con il Leo del futuro come quelli del passato erano stati cortesi a fare. Non che importasse.
Al di sopra di quel muro ligneo aveva scorto abbastanza da potersi accontentare del duro pavimento come giaciglio. La stella, le lucine, i nastri e le pigne, le stelline e le renne, le scritte e le birre sotto la chioma. Nessun regalo e nessuna promessa, nessun futuro e nemmeno una vera festa a dirla tutta. Non che importasse. Leo augurò buon Natale al tavolino, in fondo suo unico amico, perdonò i vicini schiamazzanti e finalmente mise il cuore in pace, scusandosi in anticipo con il Leo del futuro come quelli del passato erano stati cortesi a fare. Non che importasse.